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Che il 29 giugno del 1440 ad Anghiari sarebbe stata una giornata molto più calda  di quanto le temperature torride o l’umidità che appesantiva l’aria  facessero presagire, il comandante Michelotto Attendolo, al momento di  passare in rassegna l’esercito alla mattina, non poteva certo  aspettarselo. Anzi, le notizie che giungevano da Firenze e dalla  Lombardia erano davvero ottime. Dopo che i Veneziani avevano travolto i  milanesi, liberando Brescia da tre anni di assedio e costringendoli a  ripiegare su Cremona, infatti, l’esercito visconteo stanziato tra Città  di Castello e Perugia pareva allo sbando. Il comandante Niccolò  Piccinino era stato richiamato a difendere Milano, ormai esposta  all’avanzata nemica. Da Firenze quindi era giunta comunicazione di “astenersi dalla giornata”, insomma di restare in attesa degli eventi in una guerra che pareva essersi vinta da sola, senza colpo ferire.   Se non che anche il Piccinino, grazie alla delazione di alcuni informatori, venne  a sapere della rilassatezza delle schiere nemiche e subito decise di  sfruttarla a suo vantaggio. Diede ordine immediato alle truppe di  mettersi in marcia, puntando su Sansepolcro per simulare una ritirata in  Romagna. Al Borgo fu accolto da 2000 volontari che si arruolarono nel  suo esercito, attratti soprattutto dalla prospettiva di saccheggiare  Anghiari. Mentre le milizie fiorentine, pontificie e veneziane si  stavano godendo la giornata di licenza, il comandante Attendolo,  passeggiando per le mura anghiaresi vide per caso un gran polverone  alzarsi dalla piana verso Sansepolcro e, compresa la situazione, dette  subito l’allarme. Furono minuti di grande caos, ben descritti da  Machiavelli nel libro quinto delle Istorie Fiorentine: “Il  tumulto nel campo de’ Fiorentini fu grande, perché campeggiando quelli  eserciti per l’ordinario senz’alcuna disciplina, vi si era aggiunta la  negligenza, per parer loro avere il nimico discosto, e più disposto alla  fuga che alla zuffa; in modo che ciascuno era disarmato, di lungi dagli  alloggiamenti, ed in quel luogo dove volontà, o per fuggire il caldo,  ch’era grande, o per seguire alcun suo diletto, l’aveva tirato”. I  milanesi riuscirono ad arrivare fino alle porte di Anghiari, da dove  furono respinti a fatica. Erano circa le tre del pomeriggio (nella  misura odierna del tempo). La battaglia si sviluppò poi nella sua quasi  totalità attorno ad un ponticello che permetteva il guado di un canale  di irrigazione. Fu la chiave strategica del combattimento: i milanesi,  dovendo attraversare un restringimento, si ritrovavano sempre in  inferiorità numerica al contatto con la prima linea fiorentina e, anche  nei rari casi in cui riuscivano a sfondare si trovavano di fronte delle  retrovie ben riposate che avevano buon gioco a respingere nemici  stanchi. Soltanto la maggior quantità di uomini a disposizione del  Piccinino mantenne per quattro ore in equilibrio la contesa. Alle sette  però si levò un forte vento che spirava in faccia alle truppe viscontee  alzando un gran polverone. La scarsa visibilità unita alla stanchezza  obbligò l’esercito milanese a ritirarsi verso Sansepolcro. Scrive sempre  Machiavelli: “Ma come il ponte dai Fiorentini fu vinto, talmente  che le loro genti entrarono nelle strade, non sendo tempo a Niccolò per  la furia di chi veniva e per le incomodità del sito a rinfrescare i  suoi, in modo quelli davanti con quelli dietro si mescolarono, che l’uno  disordinò l’altro, e fu costretto tutto l’esercito mettersi in volta, e  ciascuno senza alcun rispetto si rifuggì verso il Borgo. I soldati  fiorentini attesero alla preda, la quale fu di prigioni , d’arnesi e di  cavalli grandissima, perché con Niccolò non rifuggirono salvi che mille  cavalli. I Borghigiani, i quali avevano seguito Niccolò per predare, di  predatori divennero preda, e furono presi tutti e taglieggiati; le  insegne ed i carriaggi furono tolti. E fu la vittoria molto più utile  per la Toscana che dannosa per il duca: perché se i Fiorentini perdevano  la giornata, la Toscana era sua; e perdendo quello, nondé altro che  le armi ed i cavalli del suo esercito, i quali con non molti danari si  poterono ricuperare”. Dal punto di vista del bilancio di morti,  feriti e prigionieri, le fonti sono in forte disaccordo tra di loro.  Machiavelli sostiene che “in tanta rotta e in sì lunga zuffa, che durò dalle venti alle ventiquattro ore (cioè iniziò alle ore venti e finì alle ventiquattro secondo il sistema allora in vigore, la cosiddetta “Ora d’Italia”  che collocava l’inizio del conteggio delle ventiquattro ore giornaliere  al momento del tramonto, quindi alle attuali sette di sera) non vi morì altri che un uomo, il quale non di ferite o d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto espirò”.  Secondo Taglieschi, tuttavia, nelle fila milanesi si contarono 60 morti  e 400 feriti, mentre tra i fiorentini perirono in 10 con 300 feriti;  furono catturati 3000 prigionieri (di cui la metà biturgensi) con  altrettanti cavalli. Si contarono anche 600 carcasse equine (Memorie Historiche e Annali della Terra d’Anghiari,  parte II libro IV). In anni recenti, lo storico rinascimentale inglese   Micheal Mallett, analizzando documenti dell’epoca, ha ipotizzato un  migliaio di caduti. La battaglia d’Anghiari riveste dunque una fondamentale importanza, non  solo per la storia della Valtiberina e della Toscana ma anche per  quella mondiale. A livello locale, segnò la fine del dominio dei Tarlati  da Pietramala (alleati di Filippo Maria Visconti) ed il passaggio del  nostro territorio sotto il controllo del Comune fiorentino (cui d’ora in  poi sarà sempre legato). La Toscana, con questa vittoria, difese la sua  autonomia. Se Firenze fosse caduta nelle mani del duca di Milano  sarebbero venute meno le condizioni politico-economiche che hanno  costituito la premessa di quello straordinario movimento di cultura e di  arte che oggi chiamiamo Rinascimento. In questo senso la battaglia di  Anghiari è stata uno di quei bivi nei quali la storia può imboccare  strade completamente divergenti fra di loro. L’importanza dell’evento,  troppo spesso sottovalutata, è discussa in un libro di recente  pubblicazione dello storico Niccolò, dal titolo “La Battaglia di Anghiari. Il giorno che salvò il Rinascimento”.  I fiorentini, a perpetua memoria della vittoria, commissionarono a  Leonardo da Vinci una sessantina di anni dopo, agli albori del XVI  secolo, di affrescare la parete destra del Salone dei Cinquecento di  Palazzo Vecchio con un affresco raffigurante la “Battaglia d’Anghiari”.  È noto che tale opera rimase incompiuta e andò poi perduta al momento  della riaffrescatura della sala eseguita da Vasari, lasciando dietro sé  un alone di mistero e curiosità che ha ispirato decine di libri e studi. Anche agli anghiaresi fu palese fin da subito l’eccezionalità dell’evento cui avevano assistito.  Nel luogo esatto in cui le truppe del Piccinino erano state messe in  fuga, fu edificata una cappella dedicata alla Madonna della Vittoria,  ancora oggi esistente. Da allora, per Anghiari, il 29 giugno non si è  più soltanto festeggiato i S.S. Pietro e Paolo, ma anche una ricorrenza  da celebrare in maniera solenne, istituendo, secondo l’uso dell’epoca,  una giostra o meglio un palio, il Palio della Vittoria. Esso non voleva  essere una mera commemorazione della battaglia quanto piuttosto una riaffermazione dell’orgoglio di appartenere alla cultura toscana.  Infatti, in contemporanea si correva anche a Firenze da Corso de’  Tintori all’Arco di Sanpierino. La formula dell’evento ha subito varie  modifiche nel corso dei secoli. Ciò che è rimasto costante è l’orario di  inizio: al calar del Sole, un colpo di bombarda dava il via ad una  corsa. Sono cambiati invece i protagonisti della contesa. Per le prime  43 edizioni, fino al 1484, si sfidavano uomini in una gara podistica che, partendo dall’appena edificata cappelletta, si concludeva presso la  Fonte del Mercatale, dove era esposto il Palio, consistente in 12  bracci di teletta. In seguito, si passò ad una corsa ippica, cui erano  ammessi solo cavalli maschi. Il Palio fu commutato in un drappo di  stoffa rossa. Era una gara senza esclusioni di colpi, nello spirito che  all’epoca caratterizzava tali competizioni (si pensi al calcio  fiorentino…). Tuttavia a volte gli animi si esacerbavano eccessivamente e  le tensioni sfociavano in risse tra i fantini, coinvolgendo raramente  anche gli spettatori. Fu proprio questo il motivo che, dopo quasi  quattro secoli, nel 1827, porto all’annullamento della manifestazione, a  seguito della morte di un partecipante, rimasto coinvolto in una zuffa.   La cancellazione fu probabilmente anche un segno del cambiamento dei tempi:  si stavano diffondendo in quegli anni gli ideali risorgimentali (già  nel 1832 un rapporto segreto della polizia del Granducato di Toscana  segnalava la presenza di cospiratori a Sansepolcro, Anghiari, Monterchi,  Pieve S. Stefano) e quindi una celebrazione dell’identità e  dell’indipendenza della Toscana sarebbe sembrata anacronistica (oltre  che impopolare). Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento  per un paio di volte si provò a riorganizzare l’evento, ma con senza  successo: rimasero episodi sporadici di cui si è quasi persa memoria. Nel 2003 invece, finalmente, fortemente voluto dalla popolazione e dalle istituzioni,  organizzato e diretto dalla Magistratura del Palio, da un’idea di  Andrea Merendelli, il Palio della Vittoria è tornato a vivere. Il formato scelto fu quello delle prime edizioni, vale a dire una corsa a  piedi su un percorso di 1400 metri con partenza dalla Cappella della  Vittoria e arrivo in Piazza Baldaccio. Il Palio, un drappo disegnato  ogni anno da uno studente dell’Istituto Statale d’Arte di Anghiari e  Sansepolcro vincitore di un apposito concorso, viene assegnato al comune  di provenienza dell’atleta vincitore. Accorrono partecipanti da tutti i  comuni limitrofi della Valtiberina, ma negli ultimi anni la fama del  Palio si è diffusa al punto che nell’edizione del 2010 ai nastri di  partenza si sono schierati rappresentanti di 32 comuni diversi, tra cui  anche Firenze, Roma, Urbania e Cortona. All’ultimo classificato viene  assegnato, quale premio di consolazione, un bicchiere di legno. La corsa di per sé dura poco più di cinque minuti, ma grazie ad una serie  di eventi collaterali, ogni anno il Palio della Vittoria significa un  periodo di festa per tutta Anghiari. Tra i più significativi ricordiamo  il 24 la mostra di prodotti artigianali e di antichi mestieri. Il lunedì  sera sarà poi particolarmente intenso, con la solenne processione di  benedizione, il Palio dei bambini, alla seconda edizione, su un percorso  ridotto e la "?Provaccia?", la gara tra podisti anghiaresi che  servirà per selezionare i cinque atleti che difenderanno l'onore del  comune al Palio. Il tutto sarà accompagnato da un Banchetto in stile  medioevale. Infine, il 29 sarà la serata clou, nella quale si ripeterà  il cerimoniale ormai tradizionale. Dalle 18,30 in Piazza Baldaccio Bruni  si radunerà il corteo storico, con lo schieramento dei gonfaloni,  l’esibizione dei Musici e Sbandieratori di Sansepolcro e le varie  premiazioni dei concorsi dei giorni precedenti. Alle 19,30 il corteo si  metterà in marcia dopo la lettura del regolamento per raggiungere la  cappella della Vittoria, da dove alle 20,15 ci sarà la Mossa, ossia la  partenza. Chiuderà la serata cena della Vittoria al Castello di Sorci.  Ricordiamo infine i vincitori che nelle edizioni moderne hanno consentito  al proprio comune di fregiarsi per un anno dell’onore di ospitare il  Palio della Vittoria. Nel 2003 a trionfare fu Lorenzo Vergni di  Sansepolcro, davanti al concittadino Luca Giorni e all’anghiarese Giulio  Calli, il quale l’anno successivo fece sì che il Palio restasse entro  le mura anghiaresi imponendosi sul tifernate Antonello Bettacchini e sul  biturgense Paolo Zanchi. Nel 2005 per la prima e fino allo scorso anno  unica volta il prezioso trofeo uscì dalla Toscana per andare a Città di  Castello, grazie all’impresa dello stesso Bettacchini che anticipò  ancora una volta Zanchi. Terzo posto per Claudio Braganti di S.  Giustino. Calli si prese la rivincita nel 2006, facendo il bis e  riportando a “casa” il Palio,  dopo una serrata lotta con il  biturgensi Luca Crulli e con l’ex-campione Vergni. Nel 2007 fu un  trionfo aretino, con la città del Saracino che monopolizzò i tre gradini  del podio con Stefano Andreini, Paolo Zacchei e Stefano Bresci. Nei tre  anni successivi si è assistito ad una vera e propria dittatura di Pieve  S. Stefano che dal 29 giugno 2008 al 2011 ha conservato il prezioso  Palio nella Sala del Consiglio comunale grazie alle due vittorie  consecutive di Giuseppe Cardelli e a quella del 2010 di Marco Donnini  (già terzo nel 2008 dietro anche a Stefano Renzetti di Sansepolcro e  secondo nel 2009 davanti al biturgense Christian Volpi). Ventiquattro   mesi fa completarono il podio ancora Renzetti e l’altro rappresentante  di Pieve Mauro Braganti. Siamo giunti così all'ultima edizione, quella  del 2011, che ha visto l'ambito trofeo  tornare per la seconda volta in  Umbria, stavolta a San Giustino, grazie all'impresa di Cristian  Marianelli, davanti a Giorni (Sansepolcro) e Calli (Anghiari).   Si rinnoverà così anche quest’anno l’appuntamento con la celebrazione dei  valori che hanno animato il popolo toscano nell’ultimo millennio,  quegli ideali che hanno ispirato la nascita della letteratura con Dante,  Petrarca, Boccaccio, le meraviglie del Rinascimento e non ultimo il  codice penale di Pietro Leopoldo del 1786 con il quale, per la prima  volta nella storia dell’umanità, fu abolita la pena di morte. Per questi  motivi, a perenne memoria, il 29 giugno, allo spegnersi dell’ultimo  raggio di sole dietro l’orizzonte, riecheggerà potente ancora una volta  il suono della bombarda.

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